Roma. La città del fato, la culla del cristianesimo, la “casa” del Papa, il luogo che accoglie ogni anno milioni di pellegrini cristiani. Famosa in tutto il mondo per le chiese più antiche e più maestose. Ma davvero a Roma è presente una sola religione? E se un giorno arrivasse un musulmano in cerca di una moschea? E se una famiglia di ebrei volesse pregare di sabato?
Bisogna conoscere Roma fino in fondo per potersi imbattere in altri luoghi di culto che non siano chiese in ogni angolo della strada. Eppure questi luoghi esistono. Ma dove si trovano? Quali sono le differenze tra i vari luoghi di culto? Noi che studiamo e siamo di Roma sappiamo dove pregano i nostri concittadini di altre religioni?
Questa è stata la riflessione di partenza del mio professore del corso di Disegno 2 (dell’università di Roma) che ha proposto tre giornate in tre luoghi sacri differenti per capirne fino in fondo le peculiarità. Per questo vorrei riportare un’analisi e infine un confronto tra una chiesa molto recente, un’antica sinagoga e una moschea che ospita una vasta comunità di arabi.
Giorno 1: Chiesa Dives in Misericordia, Richard Meier
Nel 1995 il Vicariato di Roma bandisce un concorso internazionale per la costruzione di una chiesa in una zona piuttosto periferica (nell’area di Tor Tre Teste) in occasione del Giubileo del 2000 a cui partecipano anche Tadao Ando, Gunter Behnisch, Santiago Calatrava, Peter Eisenman, Frank Gehry oltre al vincitore Richard Meier. Il concorso prevede la progettazione di una chiesa parrocchiale che sia l’emblema della religione nel nuovo millennio e che possa migliorare la qualità architettonica e urbana del quartiere prettamente residenziale. L’intervento di Meier si inserisce tra le grandi opere del XXI secolo che stanno arricchendo la capitale come l’Auditorium di Renzo Piano e il MAXXI di Zaha Hadid.
La chiesa è formata essenzialmente da due ambienti, uno per la funzione religiosa e uno per il centro parrocchiale. I due volumi si innestano perfettamente, alla forma semplice e lineare si contrappongono le curve dell’area per i fedeli. Questa è infatti costituita da tre vele bianche in calcestruzzo che sembrano gonfiate dal vento. Le vele hanno evidentemente un significato simbolico legato alla religione, esse ricordano infatti la “barca della Chiesa” che trasporta i fedeli nel nuovo millennio. La facciata principale della chiesa è interamente vetrata per poter essere un vero filtro fra l’interno e l’esterno. Soprattutto nell’area della funzione religiosa si possono riscontrare le abilità di Meier nel far percepire al massimo i giochi di luci e di ombre che riflettono sul bianco.
Questa chiesa è ancora abbastanza sconosciuta sia ai turisti, poiché non rientra nelle tipiche “visite turistiche” del centro storico, sia a molti abitanti di Roma. Il professore di disegno della mia università ha quindi deciso di accompagnarci a visitare questo luogo in quanto studenti romani e in quanto studenti di architettura. E’ veramente difficile capitare nel quartiere di Tor Tre Teste “per caso” perché si trova in una zona di Roma piuttosto decentrata, i soli “turisti” nel quartiere siamo noi studenti. Come tutte le periferie romane anche questa è mal collegata con i mezzi pubblici; per raggiungere la chiesa dal centro storico abbiamo dovuto cambiare tre autobus per un totale di più di un’ora e mezza tra i tempi di attesa e il tragitto stesso.
Penso che questo sia uno dei motivi principali per cui la chiesa resta ancora tuttora sconosciuta. Nel quartiere regna il colore grigio, ovunque, dalle strade, alle macchine, ai palazzi, senza vetrine e senza luci, un quartiere destinato interamente alle case. Poi si scende dall’autobus e si cammina non più sull’asfalto grigio, ma su una pavimentazione di pietra bianchissima fino a che non si alza lo sguardo che ricade immancabilmente su una sorta di “guscio” bianco che, a primo impatto, sembra schiudersi. La chiesa è quasi eterea, sembra un’apparizione mistica soprattutto se illuminata dal sole. Sembra calata dall’alto senza cura dello spazio circostante. Impossibile non notare la chiesa perché, pur essendo bianca, è l’unico colore dell’isolato. Non è molto alta, ma sicuramente ben distinguibile e soprattutto visibile. Si accede quindi da questa piazza bianca che, per il materiale diverso della pavimentazione e per il colore, trasporta il passante a una condizione psico-sensoriale differente. La piazza si chiama “Largo terzo millennio”. Il colore bianco è come un segnale d’allarme che avverte che di lì a poco vi sarà un luogo di culto. Si attraversa un basso cancello e si entra quindi nella chiesa direttamente dalla facciata principale. Vi sono tre porte, ciascuna di queste sotto ogni vela, la maggiore si trova sotto la vela più grande ed è sormontata da una pensilina che marca orizzontalmente la vetrata. Una volta entrati non vi è differenza a livello di luminosità tra interno e esterno, una grande vetrata domina infatti il soffitto e le pareti bianchissime sono colorate dalle ombre provenienti dagli infissi del tetto vetrato.
L’ambiente è unitario ed è scandito solamente dalle panche per i fedeli. Gli arredi sono di legno, ma chiarissimo, di ciliegio. Essi sono l’unica variazione cromatica. Nella chiesa domina l’assenza di decoro, riprendendo forse il saggio di Loos “Ornamento e delitto”. Il Pavimento, l’altare, il fonte battesimale e tutte le acquasantiere sono realizzati in blocchi lapidei di travertino romano con forme molto geometriche e prive di qualsiasi tipo di decoro. Tutto è ridotto al minimo, l’opera è imponente ma per nulla sfarzosa. L’altare si trova dalla parte opposta rispetto all’entrata come quasi in tutte le chiese per dare al pellegrino il tempo di percorrere tutta la chiesa e di compiere un “cammino”, prima di raggiungere la zona sacra dove si trova il crocefisso. Le vele minori creano una sensazione di dilatazione dello spazio ed è proprio in quest’area decentrata che si trovano l’organo e la cappella.
Il resoconto di una chiesa quasi perfetta, un punto di riferimento per il quartiere, un’opera di alto livello architettonico per Roma, un edificio ben illuminato, ben ponderato che rispecchia all’interno la sobrietà della preghiera e all’esterno il segno determinante della religione. Tranne la conservazione. Lo stato di degrado è al massimo livello. Il materiale con cui è realizzata la chiesa dovrebbe essere un cemento autopulente, ma evidentemente questo non funziona in una città inquinata come Roma. La chiesa è rivestita da uno strato di polvere piuttosto spesso ed è pervasa da spaccature, da crepe e da ruggine e questo non è considerato accettabile a soli pochi anni dalla realizzazione. Inoltre i costi di manutenzione sono altissimi e troppo onerosi per una parrocchia di periferia.
Questa chiesa è alla base di molte controversie nella capitale italiana spesso non troppo pronta a gestire grandi opere di archistar.
Giorno 2: Moschea, Paolo Portoghesi
La vera origine della moschea risale al 1966 quando il re dell’Arabia Saudita visitò Roma e, in cerca di un luogo in cui pregare, non ne trovò alcuno che rispondesse alle sue esigenze spirituali. Non esisteva ancora, infatti, nessun luogo di preghiera destinato agli islamici. Così 25 ambasciatori di nazioni nel mondo islamico si accordarono con lo Stato Italiano per promuovere un progetto di realizzazione di un luogo di culto monumentale così che anche la religione islamica potesse avere una sua rappresentanza in un paese come l’Italia in cui si sostiene la libertà religiosa anche a livello legislativo. Si è dato avvio quindi all’inizio di un grande progetto che darà vita al più grande complesso islamico d’Europa. Il Comune di Roma bandisce un concorso nel 1975 a cui partecipano circa 40 architetti e concede 30.000 metri quadrati in una zona di Roma nord non lontano dalla collina dei Parioli. A vincere il concorso è il progetto dell’architetto iracheno Sami Mousawi e dell’italiano Portoghesi: esso rispecchiava un connubio perfetto tra lo stile italiano (Portoghesi è un esperto del barocco romano e di Borromini) e quello arabo. Della cultura islamica è tipica la sala a forma di prisma quadrato, della cultura italiana è invece il colore delle facciate (giallo paglierino), il travertino e il peperino sono utilizzati per le finestre, il piombo per la copertura.
Solo cinque anni più tardi Mousawi abbandona il progetto e Portoghesi rimane quindi solo a portare a termine la progettazione e la realizzazione dell’opera prevista. La fase realizzativa diviene piuttosto complessa e occupa più di un decennio. Le questioni principali intorno alla moschea non sono solo legate in questo caso ai costi e all’architettura, ma riguardano principalmente il tabù dell’ingresso della religione islamica nella città cristiana e il delicato rapporto fra le religioni stesse. I vincoli che Portoghesi deve rispettare sono molteplici, dal non poter superare la suntuosità dei luoghi di culto della Roma cristiana al non poter progettare un minareto che fosse più alto della cupola di San Pietro. La moschea viene finalmente realizzata nel 1995.
Il complesso attualmente è in funzione e non è solo una moschea ma un vero e proprio centro culturale islamico che comprende anche sale di preghiera minori, una biblioteca con testi antichi del Corano, varie sale conferenze e spazi dedicati alle attività sociali. Il complesso della moschea ospita 2000 fedeli circa.
La moschea si trova in una zona piuttosto isolata e appartata, immersa nel verde, che per gli islamici è il principio della vita. Tutto è costruito secondo logiche, convenzioni, simboli e riferimenti del Corano. Si arriva alla moschea con un treno che si prende da una stazione della metro di Roma nord. Dopo pochi minuti di cammino si arriva davanti all’area di pertinenza della moschea che è delimitata da un alto cancello oltre il quale non è molto visibile l’interno. All’accesso vi è un gabbiotto dove vi è sempre un sorvegliante. Una volta varcata la soglia sembra di trovarsi in un’altra città, in un altro mondo. I fedeli sono vestiti diversamente da noi e le donne soprattutto hanno il capo coperto. Appena si entra in quest’area la pavimentazione cambia, vi sono delle linee bianche che formano nello spazio circolare particolari figure geometriche che rimandano alla piazza del Campidoglio a Roma. Ancora non si arriva alla moschea, la “strada è lunga”. Si percorre una sorta di viale marcato dall’acqua che scorre in un piccolo canale e si sale infine su una scalinata (segno del distacco fra il luogo sacro e il luogo profano). L’acqua accompagna il pellegrino dall’esterno all’interno, è simbolo di provvidenza divina.
Si accede tramite la scala centrale a una selva di colonne abbastanza fitte che hanno una forma a calice e ricordano gli alberi di una foresta; sono in realtà pilastri che sorreggono la copertura di alcuni passaggi. L’edificio si basa su due figure pure, il quadrato, che rappresenta la terra e i punti cardinali, e il cerchio che è simbolo del cielo. Finalmente si può entrare nella moschea: prima bisogna togliersi le scarpe e poi per noi ragazze è necessario avere i capelli coperti in quanto questi potrebbero generare distrazione per chi prega. Si cammina su un soffice tappeto blu e ci si siede a terra per pregare, nel nostro caso per ammirare la cupola. I pilastri che sorreggono la cupola sono imponenti ma leggeri, sono costituiti da un fascio di colonne rastremate che generano nella cupola un intreccio suggestivo. Il colore dominante è il blu del tappeto ma in generale i colori sono tenui, le pareti bianche sono decorate da mosaici sulla tonalità dell’azzurro. Quelli che a noi sembrano strani disegni sono in realtà versetti del Corano che corrono lungo tutta la parete. La luce ha un ruolo fondamentale, per lo studio della luce gli architetti si sono basati infatti su alcuni capitoli del Corano in cui viene descritta l’importanza della luce nella sala di preghiera. Gli elementi sembrano smaterializzarsi davanti alla luce indiretta che entra da un’asola orizzontale che corre sul perimetro della moschea. In direzione opposta rispetto all’ingresso si trova una grande nicchia decorata con mosaici blu, ci viene spiegato che è proprio quella nicchia (chiamata mihrab) verso cui bisogna rivolgersi per pregare in quanto indica la direzione della Mecca. Lateralmente vi sono i matronei dai quali pregano le donne, esse osservano la funzione dall’alto. Internamente non vi sono simboli religiosi ma sulla cupola si staglia la cosiddetta mezzaluna.
All’uscita della moschea si può visitare il centro culturale islamico e venire a contatto con la cultura araba che resta spesso a noi sconosciuta soprattutto per una ancora forte chiusura verso un mondo diverso dal nostro.
Giorno 3: Sinagoga o Tempio Maggiore, Armanni-Costa
La storia della sinagoga di Roma è complessa e piuttosto antica. La progettazione risale al 1870, un periodo di transizione per la storia italiana. Solo dopo che Roma diviene la capitale d’Italia e indipendente dallo Stato della Chiesa vengono riconosciuti agli ebrei gli stessi diritti degli altri cittadini, anche gli ebrei avevano infatti partecipato al Risorgimento Italiano. L’edificio sorge nella zona centrale di Roma, molto vicino al centro storico, sul Lungotevere. In quell’area si trovava il ghetto che poi è stato demolito con il piano regolatore del 1888. La costruzione della sinagoga di Roma è quindi il simbolo di emancipazione dell’epoca. Solo alla fine del XIX secolo gli ebrei acquistarono dal comune il terreno sul quale sorgerà il nuovo monumento. Nel 1904 si ha finalmente l’inaugurazione del Tempio Maggiore ad opera dell’ingegner Vincenzo Costa in coppia con l’architetto Osvaldo Armanni. Il progetto prevedeva un edificio dalle “forme severe, semplici, non prive tuttavia di una moderata ricchezza e armonizzanti perfettamente […] con quelle degli altri monumenti”.
Anche solo passeggiando per il centro di Roma la sinagoga non passa del tutto inosservata. E’ imponente e si staglia fra i vari edifici antichi di Roma. La visita inizia nel museo dove viene spiegata la storia della sinagoga e dove sono esposti gli antichi abiti e accessori utilizzati anticamente dai rabbini per le cerimonie. Si prosegue nella biblioteca, un luogo silenzioso che funge quasi da filtro, prepara all’ingresso in un luogo sacro. L’entrata nel luogo di culto è dal fronte principale, ma non dallo stesso livello della strada; l’edificio è infatti rialzato tramite delle gradonate. La sinagoga è monumentale, le facciate intimoriscono l’osservatore che deve attraversare un grande vestibolo in cui le colonne massicce scandiscono lo spazio. A livello spaziale vi è una corrispondenza tra l’interno e l’esterno, già dalle facciate si possono intuire due livelli sormontati da una cupola. Quando si varca la soglia l’ingresso si è catapultati in un mondo totalmente sconosciuto. L’interno è così ricco di dettagli e di colori che non si sa su cosa posare maggiormente l’attenzione. Lo stile della sinagoga è eclettico, sono presenti influenze di ogni stile architettonico e di ogni periodo storico, dalla tradizione greca a quella assira, in quanto non vi erano modelli di sinagoghe precedenti da cui trarre riferimenti. Le decorazioni interne si limitano a figure floreali o a disegni geometrici perché è proibita la rappresentazione di figure umane. L’occhio cade immediatamente sulla cupola che ha una forma particolare, diversa dalle chiese che siamo abituati a vedere a Roma; essa poggia su una base quadrata che corrisponde all’intersezione della croce greca in pianta. E’ coloratissima, ci viene spiegato che quei colori che sembrano l’arcobaleno sono in realtà i colori dell’iride, gli altri soffitti sono decorati invece con cieli stellati. La luce filtra dalle grande vetrate che si trovano sul matroneo. Le colonne che sostengono il matroneo riprendono lo stile delle colonne assiro-babilonesi ma hanno tipiche influenze liberty con decorazioni d’oro. I simboli presenti della religione ebraica sono molteplici tra cui ovviamente i tipici candelabri a sette braccia che ricordano quello usato del Tempio di Gerusalemme.
La sinagoga di Roma è l’emblema del legame tra Roma e la cultura ebraica che da sempre ha subito o preso parte ai vari avvenimenti storici e sociali.
Tre luoghi a confronto
E’ possibile confrontare delle architetture così differenti solo dopo accurati sopralluoghi, un’attenta analisi e uno studio approfondito delle piante e delle idee progettuali. Per prima cosa bisogna confrontare dove si trovano questi edifici e che relazione hanno con il contesto.
La chiesa di Meier si trova in un tessuto urbano piuttosto denso, tipico delle periferie, ma relativamente recente. Il contrasto con i palazzi circostanti è molto evidente, tipico delle architetture di Meier. La moschea è invece immersa nel verde, in una zona non troppo periferica ma poco abitata, è diventata un punto centrale dell’area dove risiedono molte famiglie arabe. La sinagoga è molto più antica ma sorge su un tessuto storico già densamente edificato, ma la questione delle demolizioni a fine ‘800 era totalmente differente da oggi. Qualsiasi romano che passeggi per il centro o che proceda in macchina sul Lungotevere ha visto almeno una volta nella vita la sinagoga. Dubito che lo stesso si possa dire per la chiesa o per la moschea. In secondo luogo si può azzardare un confronto sugli ingressi.
La chiesa di Meier ha tre ingressi tutti sulla stessa facciata, ma uno solo è quello principale da cui entrano i fedeli. L’altare sta sullo stesso asse dell’ingresso ed è separato da esso dalle file di banchi. Lo stesso vale per la sinagoga, ma in questo caso si può accedere anche dalle facciate non principali. Nella moschea il discorso è differente perché bisogna attraversare un percorso simbolico prima di raggiungere il luogo di preghiera. Una volta entrati nella vera moschea però anche in questo caso si ha l’ ”altare” sullo stesso asse d’ingresso, l’unica differenza è che non vi sono i banchi a scandire lo spazio perché i fedeli islamici pregano per terra. Nella moschea lo spazio di preghiera è però diviso per gli uomini e per le donne, anche nella sinagoga vi è il matroneo, ma non è più utilizzato per le preghiere femminili. Le coperture dei tre luoghi di culto sono totalmente differenti e sono determinanti per l’ingresso della luce negli edifici.
La chiesa non ha nessuna cupola, ma le vele sono disposte in modo tale che sembri una cupola sezionata e i pezzi lasciati là appoggiati l’uno sull’altro dal più grande al più piccolo. Da ogni spazio tra una vela e l’altra filtra la luce che raggiunge l’interno in modo più che diretto. Sia la sinagoga che la moschea hanno una cupola, ma a parte il materiale differente, differiscono per la loro struttura. La cupola della sinagoga poggia su un tamburo finestrato da cui entra la luce mentre la cupola della moschea è sostenuta dai grandi pilastri. La luce entra nella moschea in modo diretto ma diffuso perché vi sono delle grandi asole orizzontali nelle pareti perimetrali.
L’ultima attenzione è posta sul piano terra. Se la chiesa poggia direttamente sul terreno, in quanto è separata dal resto solo tramite una pavimentazione differente, la sinagoga è invece rialzata tramite pochi gradini che segnano però una sorta di distacco dal livello della strada. La moschea è ancora differente perché non vi si accede direttamente dalla strada, ma bisogna prima attraversare un cancello, giungere in una piazza circolare rialzata, salire una gradinata piuttosto ripida, camminare fra i pilastri e infine varcare la soglia del luogo di preghiera.
E’ ardua mettere a confronto degli edifici così lontani culturalmente ma allo stesso tempo vicini geograficamente, ma serve per conoscere meglio la propria città, per capire come progettare qualcosa di diverso, per conoscere esigenze diverse da quelle a cui siamo abituati.
Giulia Necci
Visite del 1/4/2015, 8/4/2015, 15/4/2015
BIBLIOGRAFIA
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